Un'azienda importante del Sud decide la dismissione. La protesta drammatica di cinque operai, l'impegno sindacale, la riapertura del negoziato: qualche riflessione dal vivo su questa vicenda emblematica, che è anche una lezione di democrazia
Si erano chiusi dentro, alle 4 e mezza del mattino del 7 settembre. Giacomo, Domenico, Paolo, Umberto, Pietro, le magliette arancioni con la scritta “Dignità non precarietà” inzuppate nella benzina, avevano minacciato di darsi fuoco se il progetto di dismissione dell’Alcatel, dello stabilimento Alcatel-Lucent di Battipaglia, fosse andato avanti come annunciato, confermato, formalizzato tra aprile e luglio. Cinque giorni dopo, a mezzanotte e mezza del 12, i loro compagni e la gente di Battipaglia in faccia ai cancelli della fabbrica, la decisione di uscire. Il lungo, paziente lavoro di tessitura messo in opera dal sindacato durante la settimana, la posizione comune assunta poche ore prima dalle istituzioni locali – Regione, Provincia, Comune – che avevano fatto proprio il piano elaborato dalla Rsu e dai lavoratori, infine la disponibilità dell’azienda a discutere le proposte di sindacato e governo all’incontro previsto del 15 presso il ministero dello Sviluppo, erano riusciti a sbloccare la situazione. Chissà cosa avranno pensato Antonia e Paola, due delle ragazze, dei ragazzi, che in questi giorni hanno eletto a domicilio il piazzale antistante lo stabilimento. Non è difficile, immaginiamo, che si siano commosse. Le avevamo incontrate, poche ora prima della conclusione della vicenda, proprio lì davanti alla fabbrica. “Oggi ciambotta e cannoli, stann’ buon’”, scherzavano sulle cose da mangiare che per i cinque compagni avevano preparato in mattinata. Scherzavano ma dietro avvertivi l’ansia, la paura di un gesto disperato. Avevano provato anche a mettergli allegria, chiamandoli con il megafono, strumento d’altri tempi in una vicenda che nelle forme di lotta la memoria d’altri tempi sembra aver accantonato. “No, adesso non vi possono rispondere – era intervenuta Antonella Caputo, appassionata segretaria di Nidil Cgil di Salerno, che qui ha saputo conquistarsi tra i tantissimi lavoratori interinali, flessibili e precari, sono quasi cinquecento, un ampio consenso –. Sono lì ma stanno dentro, adesso non possono rispondere, ci sono i nazionali”.
Una paziente tessitura
I “nazionali”. Lingua faticosa, a volte davvero brutta, il sindacalese. Che poco o niente riesce a dire, a significare, della esemplare lezione di democrazia – in un’Italia divisa, sottoposta alla dittatura mediatica di chi è abituato a parlare per slogan e a governare per decreto – fornita da donne e uomini, del Nord e del Sud, in vicende come questa. I “nazionali”, il lettore del nostro giornale lo sa, sono i dirigenti nazionali del sindacato. Nel caso in questione, Laura Spezia, segretaria Fiom, Palo Potetti ed Emilio Lonati (funzionari rispettivamente di Fiom e Fim, accompagnati da Stefania Cavaliere della Rsu Alcatel, chiusi anche loro in azienda, a spiegare ai cinque lavoratori cosa concretamente si è deciso, al mattino (e dopo il lungo lavorìo dei giorni precedenti), insieme alle istituzioni locali, per rimettere sul binario giusto l’intera questione. E che più tardi andranno a rispiegarlo, nel Centro sociale del Comune di Battipaglia, insieme agli uomini delle istituzioni, a una platea più ampia: per conquistarne il consenso, per avere la sicurezza che a Roma, al ministero, non si presenteranno con una decisione presa tra quattro mura, e affidata a una discussione tutta interna a uno spezzone di ceto politico. La vicenda dell’Alcatel ha conosciuto una nuova tappa con l’incontro che si è svolto il pomeriggio di martedì 15. Ma intanto qualche riflessione, con l’aiuto di chi questa battaglia la sta vivendo in prima persona, è già possibile. E sicuramente quella sul modo come si è deciso di affrontarla, sulla qualità della sua conduzione, sulle buone pratiche democratiche che l’hanno informata, è appunto tra le prime considerazioni che vengono in mente. Buona pratica che è l’esatto contrario della condotta tenuta in tutti questi mesi dall’azienda, del rifiuto a discutere la decisione di smobilitare e andarsene altrove. Perché di questo, crudamente, si trattava (e su questo, ora, finalmente si negozierà). Ma facciamo un passo indietro.
Dismissione?
Novanta dipendenti fissi e cinquecento in somministrazione (in altre parole precari) che ruotano su centocinquanta posti di lavoro. Alcatel -Lucent (Alu) di Battipaglia è un “Centro di integrazione e collaudo” (così secondo un accordo del 2007) dei sistemi di trasmissione su fibra ottica per la banda larga di cui l’azienda da sempre parla come della punta di diamante della sua gamma di prodotti. Ma nei meccanismi dell’economia globalizzata, e negli equilbri interni a una multinazionale (la testa è in Francia) che su altri versanti mostra segni di debolezza, tutto questo non conta. Se la ricerca e sviluppo può anche essere lasciata a Battipaglia, la produzione può benissimo migrare nei paesi low cost, in Cina e Romania. E così, a inizio aprile, Alcatel comunica ufficialmente l’intenzione di creare una nuova azienda (Btp srl) che andrà per il 60 per cento a un imprenditore locale, Pier Luigi Pastore – a giudizio di sindacato e lavoratori poco affidabile – e per l’altro 40 per cento a una cordata guidata ancora dalla multinazionale francese. La nuova società si vedrebbe garantita commesse da Alcatel per quattro anni con ottantaquattro dipendenti a tempo indeterminato e centoventi interinali a rotazione. Poi la riconversione in vista di non si sa cosa. In pratica una marcia di avvicinamento verso la chiusura – che peraltro non è una novità: vendite ed esternalizzazione hanno già interessato, in passato, i siti di Concorezzo, Maddaloni, Rieti e Frosinone –. Una decisione sconcertante, perché nello stabilimento c’erano e ci sono oggi tutte le possibilità di uno sviluppo ulteriore. E non solo per la qualità del prodotto. Anche per le risorse finanziarie che dall’Europa giù sino alla Regione Campania sono rese disponibili. L’Alu di Battipaglia è inserita infatti in un’“area di convergenza”, e per questo ha usufruito di aiuti europei (5 milioni di euro per ammodernamento e 22 milioni di euro per progetti di ricerca sulle reti ottiche-Miur). La Regione poi si è detta disposta a investire nello stabilimento utilizzando i fondi strutturali europei Fesr (Por 2007- 2013). Infine, a completare il quadro, e grazie ai suoi prodotti di nuova generazione, il sito rientra negli interventi per lo sviluppo previsti nel Dpef 2009-2013 per la larga banda.
Deboli e precari
“Perché andare via, allora?, perché permettere a questa società di sfruttare il nostro territorio per poi scappare?”. Per approfittare di un costo del lavoro minore, si è detto, per andare in Cina e in Romania. Ma, guardando le cose anche dal punto di vista di Alcatel, ovvero del risparmio sui costi, ce n’è davvero bisogno? Fiorenzo, ventisette anni, perito industriale, è in azienda dal 2003. È un interinale, uno dei centocinquanta ragazzi che, pescati da un bacino più ampio, si avvicendano nello stabilimento: contratti che scadono, vengono prorogati, poi bloccati il tempo necessario “per non entrare in continuità”. Un meccanismo che permette di ridurre il costo del lavoro, di tenere sulla corda i tanti ragazzi in attesa di una chiamata – “e il telefono che non squilla, credimi, è un fatto angoscioso” –, di assicurarsi il consenso, diciamo così, di chi lavora. “Già, il consenso – interviene Antonella Caputo –, costruito sul bisogno. E in cambio di un lavoro a metà, di un lavoro che c’è e non c’è, che ti impedisce di fare progetti, metter su famiglia, avere dei figli”. Cose che conosciamo, certo, quelle che osserva Antonella, ma che mille inchieste e una fila di libri, racconti, romanzi ormai chilometrica, sul lavoro flessibile e precario, certo non rendono meno vere. E che rimandano, se si vuole, a un’altra considerazione: l’handicap di cui, anche in questo caso, soffre il Mezzogiorno. “Perché alla fin fine – è la considerazione amara che fanno i nostri interlocutori – quel che qui stiamo rivendicando non è il lavoro industriale classicamente inteso. Qui difendiamo solo quel poco che viene, per la maggior parte di noi, dalla nostra precarietà”. Difficile, davvero difficile, aggiungere altro.
Giovanni Rispoli
fonte:http://www.rassegna.it
Si erano chiusi dentro, alle 4 e mezza del mattino del 7 settembre. Giacomo, Domenico, Paolo, Umberto, Pietro, le magliette arancioni con la scritta “Dignità non precarietà” inzuppate nella benzina, avevano minacciato di darsi fuoco se il progetto di dismissione dell’Alcatel, dello stabilimento Alcatel-Lucent di Battipaglia, fosse andato avanti come annunciato, confermato, formalizzato tra aprile e luglio. Cinque giorni dopo, a mezzanotte e mezza del 12, i loro compagni e la gente di Battipaglia in faccia ai cancelli della fabbrica, la decisione di uscire. Il lungo, paziente lavoro di tessitura messo in opera dal sindacato durante la settimana, la posizione comune assunta poche ore prima dalle istituzioni locali – Regione, Provincia, Comune – che avevano fatto proprio il piano elaborato dalla Rsu e dai lavoratori, infine la disponibilità dell’azienda a discutere le proposte di sindacato e governo all’incontro previsto del 15 presso il ministero dello Sviluppo, erano riusciti a sbloccare la situazione. Chissà cosa avranno pensato Antonia e Paola, due delle ragazze, dei ragazzi, che in questi giorni hanno eletto a domicilio il piazzale antistante lo stabilimento. Non è difficile, immaginiamo, che si siano commosse. Le avevamo incontrate, poche ora prima della conclusione della vicenda, proprio lì davanti alla fabbrica. “Oggi ciambotta e cannoli, stann’ buon’”, scherzavano sulle cose da mangiare che per i cinque compagni avevano preparato in mattinata. Scherzavano ma dietro avvertivi l’ansia, la paura di un gesto disperato. Avevano provato anche a mettergli allegria, chiamandoli con il megafono, strumento d’altri tempi in una vicenda che nelle forme di lotta la memoria d’altri tempi sembra aver accantonato. “No, adesso non vi possono rispondere – era intervenuta Antonella Caputo, appassionata segretaria di Nidil Cgil di Salerno, che qui ha saputo conquistarsi tra i tantissimi lavoratori interinali, flessibili e precari, sono quasi cinquecento, un ampio consenso –. Sono lì ma stanno dentro, adesso non possono rispondere, ci sono i nazionali”.
Una paziente tessitura
I “nazionali”. Lingua faticosa, a volte davvero brutta, il sindacalese. Che poco o niente riesce a dire, a significare, della esemplare lezione di democrazia – in un’Italia divisa, sottoposta alla dittatura mediatica di chi è abituato a parlare per slogan e a governare per decreto – fornita da donne e uomini, del Nord e del Sud, in vicende come questa. I “nazionali”, il lettore del nostro giornale lo sa, sono i dirigenti nazionali del sindacato. Nel caso in questione, Laura Spezia, segretaria Fiom, Palo Potetti ed Emilio Lonati (funzionari rispettivamente di Fiom e Fim, accompagnati da Stefania Cavaliere della Rsu Alcatel, chiusi anche loro in azienda, a spiegare ai cinque lavoratori cosa concretamente si è deciso, al mattino (e dopo il lungo lavorìo dei giorni precedenti), insieme alle istituzioni locali, per rimettere sul binario giusto l’intera questione. E che più tardi andranno a rispiegarlo, nel Centro sociale del Comune di Battipaglia, insieme agli uomini delle istituzioni, a una platea più ampia: per conquistarne il consenso, per avere la sicurezza che a Roma, al ministero, non si presenteranno con una decisione presa tra quattro mura, e affidata a una discussione tutta interna a uno spezzone di ceto politico. La vicenda dell’Alcatel ha conosciuto una nuova tappa con l’incontro che si è svolto il pomeriggio di martedì 15. Ma intanto qualche riflessione, con l’aiuto di chi questa battaglia la sta vivendo in prima persona, è già possibile. E sicuramente quella sul modo come si è deciso di affrontarla, sulla qualità della sua conduzione, sulle buone pratiche democratiche che l’hanno informata, è appunto tra le prime considerazioni che vengono in mente. Buona pratica che è l’esatto contrario della condotta tenuta in tutti questi mesi dall’azienda, del rifiuto a discutere la decisione di smobilitare e andarsene altrove. Perché di questo, crudamente, si trattava (e su questo, ora, finalmente si negozierà). Ma facciamo un passo indietro.
Dismissione?
Novanta dipendenti fissi e cinquecento in somministrazione (in altre parole precari) che ruotano su centocinquanta posti di lavoro. Alcatel -Lucent (Alu) di Battipaglia è un “Centro di integrazione e collaudo” (così secondo un accordo del 2007) dei sistemi di trasmissione su fibra ottica per la banda larga di cui l’azienda da sempre parla come della punta di diamante della sua gamma di prodotti. Ma nei meccanismi dell’economia globalizzata, e negli equilbri interni a una multinazionale (la testa è in Francia) che su altri versanti mostra segni di debolezza, tutto questo non conta. Se la ricerca e sviluppo può anche essere lasciata a Battipaglia, la produzione può benissimo migrare nei paesi low cost, in Cina e Romania. E così, a inizio aprile, Alcatel comunica ufficialmente l’intenzione di creare una nuova azienda (Btp srl) che andrà per il 60 per cento a un imprenditore locale, Pier Luigi Pastore – a giudizio di sindacato e lavoratori poco affidabile – e per l’altro 40 per cento a una cordata guidata ancora dalla multinazionale francese. La nuova società si vedrebbe garantita commesse da Alcatel per quattro anni con ottantaquattro dipendenti a tempo indeterminato e centoventi interinali a rotazione. Poi la riconversione in vista di non si sa cosa. In pratica una marcia di avvicinamento verso la chiusura – che peraltro non è una novità: vendite ed esternalizzazione hanno già interessato, in passato, i siti di Concorezzo, Maddaloni, Rieti e Frosinone –. Una decisione sconcertante, perché nello stabilimento c’erano e ci sono oggi tutte le possibilità di uno sviluppo ulteriore. E non solo per la qualità del prodotto. Anche per le risorse finanziarie che dall’Europa giù sino alla Regione Campania sono rese disponibili. L’Alu di Battipaglia è inserita infatti in un’“area di convergenza”, e per questo ha usufruito di aiuti europei (5 milioni di euro per ammodernamento e 22 milioni di euro per progetti di ricerca sulle reti ottiche-Miur). La Regione poi si è detta disposta a investire nello stabilimento utilizzando i fondi strutturali europei Fesr (Por 2007- 2013). Infine, a completare il quadro, e grazie ai suoi prodotti di nuova generazione, il sito rientra negli interventi per lo sviluppo previsti nel Dpef 2009-2013 per la larga banda.
Deboli e precari
“Perché andare via, allora?, perché permettere a questa società di sfruttare il nostro territorio per poi scappare?”. Per approfittare di un costo del lavoro minore, si è detto, per andare in Cina e in Romania. Ma, guardando le cose anche dal punto di vista di Alcatel, ovvero del risparmio sui costi, ce n’è davvero bisogno? Fiorenzo, ventisette anni, perito industriale, è in azienda dal 2003. È un interinale, uno dei centocinquanta ragazzi che, pescati da un bacino più ampio, si avvicendano nello stabilimento: contratti che scadono, vengono prorogati, poi bloccati il tempo necessario “per non entrare in continuità”. Un meccanismo che permette di ridurre il costo del lavoro, di tenere sulla corda i tanti ragazzi in attesa di una chiamata – “e il telefono che non squilla, credimi, è un fatto angoscioso” –, di assicurarsi il consenso, diciamo così, di chi lavora. “Già, il consenso – interviene Antonella Caputo –, costruito sul bisogno. E in cambio di un lavoro a metà, di un lavoro che c’è e non c’è, che ti impedisce di fare progetti, metter su famiglia, avere dei figli”. Cose che conosciamo, certo, quelle che osserva Antonella, ma che mille inchieste e una fila di libri, racconti, romanzi ormai chilometrica, sul lavoro flessibile e precario, certo non rendono meno vere. E che rimandano, se si vuole, a un’altra considerazione: l’handicap di cui, anche in questo caso, soffre il Mezzogiorno. “Perché alla fin fine – è la considerazione amara che fanno i nostri interlocutori – quel che qui stiamo rivendicando non è il lavoro industriale classicamente inteso. Qui difendiamo solo quel poco che viene, per la maggior parte di noi, dalla nostra precarietà”. Difficile, davvero difficile, aggiungere altro.
Giovanni Rispoli
fonte:http://www.rassegna.it
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